la nuova normalità richiede nuove ecologie

la nuova normalità richiede nuove ecologie

l’era delle pandemie

L’11 marzo 2020 l’umanità ha improvvisamente fatto ingresso nell’era delle pandemie. Il virus Covid-19 ha catapultato le esistenze di tutti in una dimensione senza precedenti, modificando la percezione del tempo e dello spazio e, di conseguenza, le traiettorie individuali e collettive.

  • Fino a quella data, le nostre vite erano scandite dal tempo del lavoro – o dello studio – e il tempo libero: un ritaglio, un momento di pausa dal tempo sincopato, determinato da ritmi e procedure imposte. Poi cercavamo un tempo liberato, da dedicare a noi stessi, alla nostra interiorità e spiritualità, alla contemplazione, alla ricerca di risposte più alte, al servizio civico e alla creatività disinteressata.
  • Così lo spazio che, con l’aumentare del benessere collettivo, ci aveva abituato a sentirci liberi di andare, di partire, di viaggiare e di tornare, nutrendo la sensazione di attraversare il pianeta come un’entità indefinita e non limitata.

La relazione tra tempo e spazio prende notoriamente il nome di velocità. Negli ultimi decenni ciascuno si è indagato sulla effettiva necessità di accelerazione impressa dalle dinamiche dello sviluppo, spesso perverse, iniziando a considerare i processi di modernizzazione in relazione ad altri valori – gli equilibri ambientali, le dinamiche sociali e la qualità della vita – ponendo l’indice tra contraddizioni e opportunità. Spesso invocando una maggiore lentezza.

Dal 2015 in particolare, grazie a due documenti epocali – l’Enciclica Laudato Si’ del Santo Padre Francesco e l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite – che hanno avuto il merito di dichiarare universalmente l’insostenibilità dei modelli di sviluppo, abbiamo iniziato a ragionare collettivamente sulle relazioni tra tempo e spazio, vivendo da un lato la velocità come sinonimo di voracità che alimenta le emergenze connesse al cambiamento climatico, all’inquinamento, all’uso indiscriminato del suolo, delle acque, delle energie e di tutte le risorse naturali. Dall’altro la lentezza come piattaforma di sperimentazione, creatività, ricerca e innovazione, ovvero come elemento imprescindibile per accrescere il capitale sociale, culturale e relazionale delle comunità e delle società. Nonché un volano per la realizzazione di percorsi di vita sempre più individuali e personalizzati, seguendo i quali ciascuno è diventato vettore di esperienze e – quindi – è realizzato come persona in quanto possiede aneddoti da narrare.

Coronavirus

un dizionario completamente rinnovato

Quando è stata istituita SIMTUR (era soltanto luglio 2019) in Italia c’erano ancora il Ministero dei Trasporti e il Ministero dell’Ambiente. Solo pochi mesi più tardi, sono stati istituiti il Ministero della mobilità sostenibile e il Ministero della transizione ecologica. Parole che appartenevano a pochi sono diventate all’improvviso priorità dell’agenda politica globale e del dibattito quotidiano dell’opinione pubblica. Di mezzo, la dichiarazione di pandemia.

Un solco netto: non torneremo alla normalità. O meglio, non torneremo alla normalità così come la conoscevamo. Non è una considerazione emotiva, connessa all’emergenza sanitaria: appare sempre più plausibile saranno le società e gli orientamenti dei mercati a non voler far tornare le cose com’erano prima. Ma per quanto tempo potremo parlare di “nuova normalità”, “nuova mobilità”, “nuovo turismo”, “transizione ecologica”, “transizione digitale”, come se il tempo si fosse fermato e le parole che utilizzavamo non fossero più sufficienti a descrivere il presente?

Diventa oltremodo necessario condividere un dizionario collettivo rinnovato, in cui le parole restituiscano il senso dei cambiamenti di paradigma che nel frattempo si sono affermati: siamo chiamati ad assimilare l’idea che la pandemia – a differenza di tutte le crisi precedenti – sia a tutti gli effetti un trauma collettivo che sopravviverà per decenni dietro le quinte, non soltanto da un punto di vista economico ma come risultato di una frattura che ha sconvolto l’identità sociale di luoghi, territori e comunità.

Una delle parole che sembrano aver assunto nuovo protagonismo è senza dubbio “resilienza”, che i dizionari definiscono come “la capacità di riprendersi rapidamente dalle difficoltà”, entrata nel senso comune come la mentalità necessaria per resistere alle difficoltà e arrivare al dopo. Probabilmente sarebbe più opportuno ragionare nei termini di resilienza ecologica, intesa come la capacità di un sistema di adattarsi ai cambiamenti per continuare ad evolvere.

MIMS - Dieci anni per trasformare l'Italia

ha ancora senso essere ecologisti?

La lotta alla pandemia, oltre il fronte strettamente sanitario, trova disegno e attuazione nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), fondato su quattro cardini: rilancio dell’economia; transizione digitale ed ecologica; riforme e semplificazioni; riduzione delle disuguaglianze. Dalla sua lettura, emergono chiaramente le vocazioni trasversali, almeno dichiarate, che trovano la sostenibilità al centro delle nuove infrastrutture, della mobilità, di nuovi modelli di gestione delle criticità da sottrarre all’emergenza continua (incendi, dissesto idrogeologico, cambiamenti climatici, ecc.) e di una generale innovazione organizzativa.

Ma davvero l’accelerazione degli investimenti consentirà di agire nell’ottica della sostenibilità? Ora che resilienza e transizione sono sulla bocca di tutti, ha ancora senso essere e definirsi ecologisti?
Per provare almeno ad abbozzare una risposta, vale la pena provare a ri-definire il senso e l’orizzonte della parola “ecologista. Per SIMTUR significa un atteggiamento che prevede la presenza contemporanea di 5 elementi:

  1. un atteggiamento positivo nei confronti della natura, con una conseguente inclinazione a preservarne le risorse (aria, acqua, terra) ed a salvaguardare la biodiversità;
  2. la consapevolezza che “transizione” significa cambiamento. E che il cambiamento richiede coraggio nelle scelte, coerenza nelle strategie di lungo periodo ed efficacia nelle azioni quotidiane, con robusti investimenti in ricerca e innovazione, di metodo e di processo;
  3. una serie di concreti obiettivi di azione, che possono anche organizzarsi in politiche globali e programmi complessi ma che affondano le radici più profonde negli stili di vita, di produzione, di trasporto e di consumo di ciascun abitante del Pianeta;
  4. la volontà e la capacità di organizzarsi collettivamente e pubblicamente per perseguire il raggiungimento di tali obiettivi. Secondo l’adagio “pensare globalmente e agire localmente“, ciò significa che l’umanità intera è chiamata ad aver cura della casa comune, Madre Terra, ma ciò non sarà mai possibile senza prima sentirsi comunità;
  5. un forte orientamento al futuro. Anzitutto abbandonare consuetudini sbagliate e uscire dalla “comfort zone” (ha ancora senso portare a spasso per la città un salotto con le ruote, bruciando risorse non rinnovabili per spostare individualmente una tonnellata d’acciaio?) e volgere lo sguardo alle generazioni che verranno.
Farfalla blu

costruttori di #futuroprossimo

Fin dalle prime società di cacciatori-raccoglitori, gli umani hanno imparato a sopravvivere comprendendo l’ecosistema attorno: senza una conoscenza dei modelli di comportamento degli animali, delle loro migrazioni, dei tassi di crescita delle piante o dell’importanza dei flussi d’acqua, i nostri antenati non sarebbero stati in grado di prosperare ed evolversi. Si può quindi dire che senza ecologia non ci sarebbe l’umanità .

Tuttavia, con lo sviluppo delle città e dei progressi tecnologici, le società sedentarie si sono allontanate sempre dalla relazione con la natura, perdendo aderenza in familiarità e – quindi – nella conoscenza popolare. Non esiste un manuale ufficiale per ecologisti: è un movimento composto da una molteplice varietà di persone unite dal sentimento di voler proteggere la casa comune e gli ecosistemi per viverci in modo sostenibile, ma ciascuna con una propria lente colorata.

Con l’avvento della pandemia, si possono ancor più facilmente distinguere 2 tendenze emergenti, più aggreganti e dunque sempre più influenti:

  • eco-socialismo: l’ambientalismo “storico”, sorto prevalentemente sulla base dell’analisi marxista, che considera il capitalismo incompatibile con la protezione dell’ambiente. Sostiene che l’integrazione sostenibile della società nella natura sia possibile solo all’interno di un’economia orientata ai bisogni umani e non alla crescita del capitale. La versione più integralista contiene limiti invalicabili allo sviluppo.
  • eco-capitalismo: difende la possibilità di creare un sistema in cui la crescita economica è compatibile con la natura. In tale sistema, la tutela dell’ambiente si propone come un ulteriore servizio all’interno del libero mercato, il cui presupposto consente di prevedere che la crescente presenza di consumatori sensibili ai temi ecologici farà scomparire le aziende non sostenibili.

C’è da augurarsi possa emergere più diffusamente un eco-centrismo, basato sul concetto di “ecologia profonda” che considera l’uomo allo stesso livello di importanza di qualsiasi altro essere vivente all’interno dell’ecosistema, che diventa l’elemento principale. L’imperativo è difendere e proteggere la natura indipendentemente dai benefici strumentali che derivano dall’utilizzo umano, tutelando le generazioni future dall’eccesso di consumi e di sprechi.

Da questo presupposto si articola l’azione di SIMTUR, fondata su tre pilastri – bellezza, lentezza e gentilezza – che nel lavorare a next integra la prospettiva convivialista per invitare a realizzare il #futuroprossimo modificando i nostri stili di produzione, consumo, distribuzione, mobilità e vita, abbandonando i modelli di crescita incondizionata che in passato hanno privilegiato la quantità (e dunque l’appropriazione, l’esibizione, la velocità e la voracità) per compiere una transizione che privilegi la qualità e l’umanità, ovvero la relazione con l’ambiente, con i luoghi e con le persone.

Prospettiva convivialista

il #futuroprossimo è circolare

In un mondo in cui tutto è connesso, non è difficile immaginare un #futuroprossimo che, superate le sfide della transizione green e digitale, adotti definitivamente paradigmi di produzione, distribuzione e consumo in armonia con le esigenze di qualità della vita delle persone e – tra queste – prioritariamente l’ambiente.

Si tratta di abbracciare i principi dell’economia condivisa, dell’economia circolare, dell’economia civile, che assieme rappresentano l’economia della bellezza: nuove modalità per riconoscere il valore che ci circonda.

In fondo si tratta di rigenerare, riqualificare, riutilizzare, riparare, riciclare. Ovvero evitare il consumo sfrenato, lo spreco e l’abbandono. In altre parole, avviare un lavoro collettivo che disegni nuove formule di convivenza orientate ai principi della democrazia, del dialogo tra culture, dell’equità, della pari dignità, della accessibilità universale e della responsabilità sociale ed ecologica.

Ognuno di noi può essere cambiamento. Ognuno può essere #futuroprossimo