Ciclovie e cammini per narrare i territori

Attraverso le ciclabili si aprono linee di approdo nella cultura e nel paesaggio, una narrazione che si snoda lungo i cammini che consentono scoperte di luoghi, territori e tradizioni.

La mobilità dolce è uno straordinario connettore sostenibile di relazioni tra l’uomo e il paesaggio: tracce su cui costruire immagini o racconti. Così è stato pensato il progetto “interpretativo” editoriale proposto da Edicilo dal titolo “Ciclabili e Cammini per narrare i territori“.

Ti proponiamo la lettura di un estratto per tre degli autori: Diana Giudici, Paolo Pileri e Alessandro Giacomel.
Al volume hanno contribuito anche Camilla Munno, Rossella Moscarelli e Federica Bianchi.

VENTO di Diana Giudici

Una ciclabile o un cammino disegnati senza un progetto di territorio sono un legame muto. Ce ne siamo convinti durante questi anni di ricerca sul progetto VENTO. L’idea di VENTO, di una dorsale cicloturistica lungo il fiume Po, nasce nel 2010 con una visione dichiarata: ricucire la bellezza dei territori attraversati, rianimandone la vitalità. A partire da questa visione VENTO prende forma attraverso due anime, facce della stessa medaglia. La prima consiste nel progetto dell’infrastruttura: oltre 700 chilometri di ciclabile, da Venezia a Torino, che corre soprattutto sulle sommità arginali del Po. VENTO sarà una pista ciclopedonale dedicata, con un fondo continuo, sicuro, senza interruzioni, e con soluzioni tecniche unificate su tutto il tracciato. La sicurezza e la continuità dell’infrastruttura, che rendono il viaggio in bicicletta o a piedi un’esperienza bella e alla portata di tutti, permettono di guardare anche all’altra faccia della medaglia, le tante e varie ricadute positive che si generano a beneficio dei territori lambiti. Le dorsali come VENTO aprono le porte a centinaia di migliaia di viaggiatori. E saranno loro, nello scambio con i luoghi e con chi li abita, a rianimare economicamente, socialmente e culturalmente quelle aree fragili, oggi dimenticate. VENTO riapre al pubblico il paesaggio del Po, il piacere di visitarlo, percorrerlo e scoprirlo con il ritmo slow delle nostre gambe, a piedi o in bicicletta. La linea di VENTO coinvolge un territorio ampio con l’obiettivo di rigenerarlo nella sua identità e dignità, rianimando centri storici svuotati e in abbandono, innescando recuperi di beni dismessi e attivando nuovi posti di lavoro.

VENTO quindi non è una banale infrastruttura e nemmeno una campagna di marketing territoriale per promuovere il Po, bensì un progetto di territorio. È sempre importante ribadirlo a tutti e in particolare alle istituzioni locali e centrali: oggi VENTO è un progetto di priorità nazionale per il Paese, è stato inserito nel Sistema Nazionale delle Ciclovie Turistiche (nato nel 2016 per volontà del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti in collaborazione con il ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo) e usufruisce di importanti finanziamenti grazie alle risorse stanziate dalle leggi di stabilità 2016 e 2017. Dopo anni di ricerca e condivisione del progetto sul territorio, VENTO nel prossimo futuro diventerà realtà.

Dall’esperienza del progetto VENTO e dalle intenzioni culturali che ne sono alla base prende le mosse questo libro, il cui obiettivo è indaga- re possibili forme di narrazione dei territori attraversati integrandole nei progetti di infrastrutture leggere, vuoi ciclabili, vuoi pedonali. La maturità raggiunta da molti linguaggi artistici contemporanei è divenuta una chiave espressiva potente per coinvolgere abitanti e viaggiatori in qualcosa che non li lascia più indifferenti ai luoghi che attraversano. Il racconto del territorio diviene il contenuto vivo e dialogico di queste infrastrutture.

FILO NARRATIVO, PROGETTO DI TERRITORIO, di Paolo Pileri

Da sempre, e non solo in Italia, cammini e ciclabili sono assimilati alle infrastrutture stradali. Da esse mutuano, ridimensionandole, geometrie, manufatti, uso dei materiali e dispositivi di segnalazione. Non è inusuale che i codici stradali li trattino come mini strade o mini autostrade. Ma è proprio questo che ciclabili e cammini non sono. Innanzitutto perché, anche se nascono per congiungere due luoghi, da sempre e inevitabilmente il tipo di movimento che accade là sopra produce mutua relazione tra chi si muove e ciò che è intorno. La lentezza lavora come una lente (e il gioco di parole non è casuale) che rende possibile percepire anche le piccole sfumature del mondo che si attraversa e che formano il lungo e cangiante racconto di territorio. Questa è l’intima differenza tra quelle che potremmo chiamare linee veloci e linee lente: queste ultime sono narrative. Una differenza sostanziale di cui politici, pianificatori e progettisti devono non solo avere piena consapevolezza, ma anche trattare adeguatamente mettendo a punto attenzioni, norme e dispositivi progettuali totalmente diversi.

Nelle pagine di questo libro vedremo alcuni esempi che, lavorando con elementi simbolici, hanno provato a catturare l’attenzione del passante comunicandogli che là accade qualcosa o che vi è una storia che vale la pena conoscere o un’emozione che qualcuno ha la bontà di regalare a chi passa, fissando una relazione affettiva tra abitanti e passanti. Spiegando che si tratta di luoghi e non di spazi. Queste sperimentazioni, a vederle bene, anche nella loro diversità, ci suggeriscono un nuovo campo progettuale che potrebbe misurarsi proprio con ciclabili e sentieri, esaltandone l’innata vocazione narratrice. D’altronde, come ci ricorda Rebecca Solnit, un sentiero può essere “una delle principali interpretazioni del modo migliore per attraversare un paesaggio, e seguire un itinerario significa accogliere un’interpretazione”.

Le cose però, talvolta, sono più complicate e richiedono di moltiplicare i nostri sforzi di attenzione. Se ci focalizziamo sul sentiero per un momento, senza distaccarci dal tempo in cui siamo, dobbiamo fare i conti con il fatto che, oggi, di molti di quei sentieri rimangono solo poche tracce. L’uso e l’abuso delle auto hanno non solo cancellato i sentieri, magari andandoci sopra o sostituendoli con sbadate urbanizzazioni, ma rimosso la cultura popolare del movimento lento. Eppure oggi le cose stanno cambiando. Migliaia di persone si sono messe lo zaino sulle spalle e hanno inforcato una bicicletta consegnando ai progettisti una nuova sfida: riaprire i sentieri scomparsi, ricucire i monconi ciclabili tra loro, ridare dignità alle stradine di campagna interrotte dalla prepotenza delle tangenziali. Quella rete scucita, che non porta da nessuna parte e genera disagio e disorientamento, ha bisogno di cure e di reinvenzioni. Da alcuni anni è ripresa la domanda di infrastrutture leggere (VENTO è figlio di questo riaffioramento culturale). Così è tornata l’esigenza di progettarle, in parte rimettendo assieme gli antichi tratti (è il caso della Via Francigena), in parte generandone di nuovi (è il caso del Sistema Nazionale delle Ciclovie Turistiche). Ma questa esigenza richiede a sua volta di definire meglio cosa significa progettare ciclabili e ancor più quelle turistiche di lunga distanza, i cui obiettivi sono decisamente diversi dalla viabilità dolce urbana. E proprio sulla soglia della domanda di progettazione nasce questo libro, il cui scopo è mostrare al progettista, e non solo a lui, che non basta avere padronanza degli attrezzi tecnici degli “stradini” per disegnare le nuove “mini strade”, ma occorre formare una nuova consapevolezza che sveli le linee lente come corde vocali di un territorio altri- menti muto o balbettante: benvenuti nel campo del progetto di territorio. Ognuno di quei fili leggeri funziona da struttura portante nascosta, come una specie di “filo di ferro” che può sorreggere i fragili racconti che sono depositati nel territorio che si attraversa, nel paesaggio che si ammira, nei profumi che si sentono, nei volti che si incrociano, nei gusti che si incontrano, nelle storie che sono custodite dietro una porta o un portone, nei mestieri che resistono, nel colore dei muri che si sfiorano, nella varietà dei campi coltivati, nella frescura di un bosco, sulle orme di quanti, prima, hanno a loro volta raccontato quei luoghi. Questo è ciò che cerca un viaggiatore a piedi o in bicicletta, e la strada deve farglielo incontrare. La dimensione narrativa è ciò su cui ci preme fermare l’attenzione in questo libro. Da non confondersi con lo storytelling di cui spesso sentiamo dire, invenzione di un recente marketing promo commercializzante il cui fine prevalente è il cosiddetto business di prodotto o esperienziale, che fa da cornice ad azioni volte unicamente, o quasi, a far consumare il turista riducendo, immancabilmente, il territorio a poco più di un super- market e lui a una carta di credito. In quella logica c’è poco spazio per il viaggiatore e moltissimo per il turista. Quel marketing ha incantato anche alcuni urbanisti e politici, ma lo riteniamo inadatto alla rigenerazione di qualità di molti nostri delicati paesaggi. Ci interessa piuttosto una narra- zione pedagogica per chi passa e ontologica per chi abita (e pure il viceversa), il cui fine è riconoscersi nel territorio e riappropriarsi del senso più intimo di ciò che abbiamo intorno, per amarlo. Il turismo lento è ciò che fa al caso nostro. Con la lentezza, torna protagonista il viaggio con il suo corredo fatto di libertà, godimento, relazionalità, riaffermazione di un’idea di tempo libero che è tempo liberato dalla premura e dall’ansia del “tutto e subito” del presente. Il viaggio lento è terapeutico per chi lo pratica ma è anche benefico per i luoghi attraversati che tornano a essere rifrequentati e si rigenerano. Con il turismo lento anche il progetto narrativo cambia registro, ricercando nuove forme con le quali dare voce ai luoghi attraversati consentendogli di raccontarsi. Così, nella narrazione che ci interessa, trovano spazio storie locali o saggezze popolari, parole, memorie di chi ha avuto una vita illustre e da quella casa che si affaccia sul cammino ha iniziato la sua avventura, frasi o proverbi, o ancora una ricetta della tradizione, una data, un’immagine di un viso segnato dal mestiere tipico di quel luogo, un disegno che tratteggia il melone che da sempre lì viene coltivato o la sagoma della facciata della pieve o la pianta della fortezza a base stellata. Tessere vocali imparentate tra loro che un filo può legare assieme in un discorso che qualcuno legge e qualcun altro scrive, generando un legame in cui entrambi si specchiano e riconoscono figli di un medesimo territorio, di una storia che supera la loro dimensione locale proiettandola in qualcosa di più grande.

È il paesaggio, come un mosaico formato da quelle tessere vocali, che parla durante quel paziente inoltrarsi nei luoghi, come piaceva dire a Cesare Zavattini. Il progetto di narrazione va a risvegliare quelle storie riportandole alla luce e diviene così parte inseparabile del disegno di infrastruttura lenta, onorando la sfida di accogliere un’interpretazione e raccontare un territorio entro una struttura narrativa intenzionale (Secchi, 2000). Ecco allora che quel lungo sentiero e quella lunga ciclabile non possono che essere concepiti nella loro dimensione dilatata che nulla ha a che vedere con le artificiose perimetrazioni amministrative locali. A queste geometrie abbiamo ubbidito troppo a lungo e con troppa osservanza, finendo per perdere di vista che quelle linee, come pure la promozione turistica di un luogo, hanno senso se ricomposte in un tutto più ampio e più denso di racconti e sensi. Chi si inoltra pazientemente per luoghi odia le interruzioni tra un comune e l’altro, perché interrompono la sua ricerca di indicatori di senso che umanizzano il percorso (Le Breton, 2003).

Torniamo quindi al filo in quanto infrastruttura relazionale e con- centriamoci su chi abita lungo la linea lenta e sul suo corredo di aspettative sociali, culturali ed economiche. La questione ora è: “Può una ciclabile divenire impulso per quel corredo di aspettative?”. La domanda, immancabilmente, ha per destinazione i politici, i pianificatori e i progettisti. In questi anni, a ridosso del progetto VENTO, abbiamo studiato tante altre lunghe ciclabili turistiche scoprendo che molte di loro sono divenute tracciati lungo i quali si sono compiute vere e proprie rigenerazioni sociali e urbane. Ne è dimostrazione il fatto che un chilometro di una di quelle lunghe ciclabili in Germania o in Austria o in Svizzera arriva a sostenere fino a cinque posti di lavoro, dignitosi, vari per tipologia, durevoli e di qualità. D’altronde ciclabile è una parola composta da cicl– e abile. Questa unione custodisce il segreto di un possibile successo, spiegandoci che stiamo manipolando dispositivi che “abilitano”, che fanno accadere qualcosa di buono fuori da se stessi. Un chilometro di molte lunghe ciclabili europee si porta dietro un indotto economico che oscilla tra i cento e i 350.000 euro per anno (ADFC, 2011 e 2013). Indotti ancor più interessanti soprattutto perché distribuiscono i vantaggi senza snaturare il DNA dei luoghi e lo spirito delle loro culture locali. E questo accade anche per i grandi cammini europei così ben strutturati.

La risposta alla domanda iniziale comincia così a delinearsi e scopriamo che quei fili leggeri sono anche dei potenti generatori di società e di economie locali, e quindi possono offrire importanti opportunità a chi in quei territori vive, ha un’impresa, un’azienda agricola o vuole diventare là una guida museale e non emigrare per forza in una città d’arte. Per natura e per destino, sentieri e ciclabili lunghe possono divenire linee antifragili capaci di dare una concreta, dignitosa e adeguata speranza di riscatto a tanti delicati paesaggi. Ancor più per le aree interne, più esposte di altre ai morsi delle tante forme assunte dalla fragilità: spopolamento, invecchiamento della popolazione, disoccupazione, spaesamento, accessibilità, solo per citare le più note. Così quegli stessi fili e i loro progettisti si trovano addosso la responsabilità di prendersi cura della prospettiva di quei territori, ovvero, interpretando Franco Farinelli, diventano interpreti tangibili di quell’artificio strategico in grado di trasformare i punti dispersi e disorientati in moderno territorio.

DAL SEGNALE AL SEGNO, DALLA INDICAZIONE AL RACCONTO, di Alessandro Giacomel

Questo libro intende esplorare il tema di una nuova narrazione per le infrastrutture leggere, costruita a partire da codici visivi diversi da quelli attualmente in uso. La segnaletica che oggi troviamo lungo le piste ciclabili e i cammini è di due tipi: conforme o non conforme al Codice della strada. Nel primo caso si tratta di segnali il cui codice visivo è predefinito e il messaggio è rivolto principalmente a far rispettare un obbligo: fermati!, attenzione!, pericolo!, dai la precedenza!, svolta a destra, vai dritto.
Nel secondo caso, invece, il codice visivo è sempre diverso a seconda della sensibilità del soggetto che lo ha fatto realizzare (parco, comune, associazione, ecc.) e solitamente il messaggio restituisce un’informazione di tipo turistico, culturale oppure indica una direzione. Entrambe le famiglie di segnali risultano utili per regolamentare la circolazione di mezzi e persone, oppure per guidare lungo il percorso/cammino, ma inefficaci nel momento in cui è necessario accendere la curiosità del ciclista/camminatore, spingendolo a scoprire le bellezze, visibili o invisibili, dei territori attraversati. Una piccola chiesa, un edificio della bonifica, una cascina, una locanda, un museo, il campo di un’antica battaglia, i livelli delle alluvioni storiche, un’oasi naturalistica, la città natale di un artista: tutto ciò è invisibile agli occhi della rigida segna- letica stradale o di una bacheca informativa fissa in un luogo, densa di informazioni, volta più a descrivere che a emozionare, e comunque poco o per nulla adatta al passo o alla pedalata di chi si muove.

La sfida che vogliamo lanciare è quella di provare a lavorare sulla dimensione emozionale che si può sprigionare percorrendo le ciclabili e i cammini nel momento in cui attraversano un piccolo borgo, passano davanti a un campo o a fianco di un canale. Quale immaginario produrrebbero la sagoma di un campanile, la parola pronunciata da un condottiero o l’immagine del viso segnato dal sole di un contadino, se uscissero dal testo fitto e descrittivo di una bacheca per mostrarsi impressi a terra o su un muro al passaggio di chi pedala o cammina?

Informazioni emozionali da catturare in movimento lungo i fili leggeri delle ciclabili e dei cammini. Fili densi di storie da narrare, una diversa dall’altra. Fili che a loro volta si intrecciano a formare reti di storie, collezioni di narrazioni fatte di luoghi, spazi, oggetti, persone, segni che permettono al viaggiatore di immergersi nella densità di un luogo, innamorarsi e diventare parte di esso. Uno stato emozionale che è possibile raggiungere solo ampliando la gamma dei codici visivi attuali, provando a esplorare altri linguaggi come la poesia, la scrittura, la street art, l’illustrazione, la grafica, la fotografia, il colore, con la possibilità di combinarli tra loro per rendere il più efficace possibile e affettiva la narrazione stessa. Il progetto di narrazione, per prendere forma, ha quindi bisogno di arricchire la propria grammatica di segni. Per farlo è necessario che la sperimentazione si muova verso nuovi codici visivi in grado di articolare non solo l’esperienza di chi pedala o cammina lungo un percorso, ma anche lo stesso progetto infrastrutturale. Il progetto infrastrutturale “duro”, fatto di ponti, attraversamenti stradali, cordoli, sbarre, raggi di curvatura, pendenze, ecc., atto a predisporre lo spazio fisico del movimento, si arricchisce di una nuova componente, fatta di segni che utilizzano codici visivi in grado di mettere in contatto l’utente con il territorio.
Il processo di costruzione delle linee leggere ha quindi bisogno non solo del progettista esperto degli aspetti tecnici, ma anche di una nuova figura, il progettista che chiameremo “narratore”, abile nel dare forma al racconto, leggere i segni e le storie che si svolgono lungo il filo, scegliere i codici visivi adatti che combinati tra loro diano forma a dei segnali, decidendo infine dove collocarli: a terra o su un muro, vicino o lontano.

La figura del progettista tecnico e quella del progettista narratore sarebbe preferibile fosse la stessa, in ogni caso il loro lavoro si deve armonizzare, in quanto molte scelte del primo hanno ricadute su quelle del secondo. Si pensi, per esempio, al tema della scelta del tracciato: per il tecnico la scelta del tracciato è legata ad aspetti di tipo qualitativo (contesto attraversato) e quantitativo (rapporto costi/benefici), mentre per il narratore la scelta ha ricadute sul fatto che ogni tracciato condensa al suo interno tante emozioni e lui deve riuscire a dare forma al proprio racconto. Oppure, nel caso della velocità, per il tecnico è un fattore che determina la dimensione e i raggi di curvatura dell’infrastruttura, mentre per il narratore è legata a come verranno percepiti i segni che lungo il percorso permetteranno di attivare il racconto e di seguire il filo narrativo: a velocità alte corrispondono percezioni dilatate e di insieme del paesaggio, a velocità lente emergono altri elementi che si aggiungono al quadro di insieme e che possono essere percepiti fin nei particolari.

Per riuscire a narrare la bellezza dei luoghi, oltre a nuovi codici visivi e a una figura professionale in grado di dargli forma, è indispensabile predisporre un progetto ben coordinato, nell’ambito del quale il progettista deve essere in grado di controllare più aspetti: la velocità con cui dovrà essere percepita la storia, i codici visivi adatti a innescare le emozioni, la dimensione e la cadenza dei segni, le modalità con cui lo sguardo del ciclista/camminatore si muovono dal segnale posto sul percorso verso il racconto, la scala vasta della narrazione che non può essere locale e frammentata ma tenere l’estensione di tutta la linea lenta che spesso supera i 700 chilometri, come nel caso di VENTO.

Un progetto complesso che non può essere lasciato al caso o all’autoproduzione locale, perché il rischio è la frammentazione del racconto, come oggi spesso accade difronte a una Babele di segnali (frutto di un eccesso di burocrazia-normazione-miopia, oppure della loro completa assenza) (vedi immagine a fianco). Situazioni che oltre a essere indice di una cattiva progettazione, disorientano chi le percorre, interrompono la narrazione e con essa quel sentimento con cui si abbraccia il territorio come un tutt’uno. La “tenuta” del filo narrativo, cioè la continuità del racconto, dipende inoltre dalla chiarezza con cui viene raccontata la storia. Il fatto che ogni filo possa ospitare una sola storia, quella che il progettista narratore deciderà di “scrivere” lungo il percorso, implica delle scelte su cosa includere nel racconto (per esempio, un museo, un edificio della bonifica, un campanile percepito da una sommità arginale, ecc.) e cosa escludere (per esempio, una piazza, una vicenda storica locale, un piatto tipico, ecc.). Un’azione, quella del mettere e del togliere, che termina nel momento in cui si è trovato il giusto grado di approfondimento con il quale raccontare la storia: il modo più semplice per conseguire la semplicità è attraverso una riduzione ragionata (Maeda, 2006). Il progettista deve essere abile a innescare la curiosità, e il suo lavoro si deve interrompere poco prima della soglia – troppi dettagli sovraccaricherebbero il racconto, troppo pochi non permetterebbero di coglierne la continuità per dare modo solo al ciclista o al camminatore di decidere se superarla approfondendo il racconto (deviando per visitare una chiesa barocca il cui profilo è riprodotto su un muro lungo il percorso, o seguendo la sequenza di sagome di animali riprodotte a terra, che si riproducono nell’area naturale che in quel momento sta attraversando) oppure proseguendo liberamente il proprio viaggio.

+INFO sul sito di Ediciclo

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